E’ STATA LA MANO DI DIO – La grotta del Sé – Analisi del film

Titolo: È stata la mano di Dio
Anno di produzione: 2021
Casa di produzione: The Apartment
Distribuzione: Netflix, Lucky Red
Sceneggiatura e regia: Paolo Sorrentino

“[..] ogni artista vero, muore insoddisfatto. Soddisfatto è solamente colui il quale, a un certo momento, cessa dal pensare, e si mette ad ammirare se medesimo e, cioè, il suo cadavere di pensatore;”
Benedetto Croce, Logica

Per poter condurre un’analisi che speriamo sia all’altezza di questo film dobbiamo soffermarci su quella che è una delle sequenze più potenti, ma veramente potenti del film. Dal minuto 109 con la prima scena al teatro Toledo sino al minuto 115 con il tuffo in mare di Capuano: 6-7 minuti davvero, davvero importanti.

Quello che dobbiamo tenere ben presente per analizzare questa scrittura è la scissione tra l’immagine e la voce. Pensiamo, cioè, a una immagine che rappresenti il dolore (l’immagine quindi di un evento doloroso) e la relativa voce che parla da quel dolore, la voce che arriva da quella immagine.

Si tratta di quelle immagini che, come fotogrammi, rimangono impresse nella pellicola della nostra memoria, fotogrammi che raccontano eventi dolorosi diversi tra loro come fossero diapositive, quindi, mute, isolate una dall’altra… proviamo, ora, a prenderne una sola, da quella diapositiva ‘muta’ esce una ‘voce’ che consiste in una parola, parola che traduce il senso vero di quella immagine, il significato vero che il contenuto della diapositiva dovrebbe poterci trasmettere.

Attenzione quindi non le voci della scena impressa nella diapositiva (che è muta), ma il senso della scena ‘fissa’ così come è rappresentata.

Molte sono le diapositive depositate nella nostra memoria riconducibili a eventi dolorosi dei quali siamo consci e delle quali ne sentiamo o pensiamo di sentirne bene le voci.

Ma dietro a queste spesso ce n’è una persa, dimenticata, alle volte rimossa, ma presente, la cui impronta marca tutte le altre che conosciamo… ce ne accorgiamo perché la voce di quella diapositiva nascosta tenta di farsi udire da noi e noi costantemente la ricacciamo indietro; allora per provare a farsi udire quella voce prende altre forme, si infila e si insinua in altre parole, trova altri modi… fino a poter diventare una sorta di bassa frequenza fastidiosa, un rumore di fondo che esce nel nostro silenzio.

Ecco, è di questa dicotomia tra questa immagine e della sua voce che Sorrentino ci racconta.

Sorrentino ci fa fare un percorso, un percorso realmente camminato che parte da un punto alto: il teatro Toledo si trova un po’ in alto; fino ad arrivare a un punto basso, il livello zero che è il livello del mare sul quale sorge una sorta di grotta, di ipogeo, dove andare a scavare per cercare la voce dell’immagine perduta. Nel fare questo tragitto attraversiamo due luoghi chiusi e poi due luoghi aperti, due luoghi di scavo e due luoghi di confronto. Questi luoghi si susseguono in modo alternato: il teatro, la strada, l’ipogeo, il mare; è una discesa nel nostro animo.

E allora cominciamo: andiamo nel luogo chiuso che è il luogo chiuso per eccellenza: il teatro, da cui tutto ha origine, da cui tutto parte. Finalmente Yulia, l’attrice, riesce ad avere in sala il regista Capuano, Capuano però a un certo punto si alza in piedi, interrompe la rappresentazione e dice a Yulia (che sta recitando sola sul palco) di piantarla, di tagliare, perché sta diventando autoreferenziale, si sta sfilacciando. Ed è in questo luogo chiuso, posto in alto, dove Capuano dice a chi sta recitando: ti stai sfilacciando. Alla fine della sequenza, a Fabietto, lo stesso Capuano dirà ti stai disunendo.

Iniziamo dunque il percorso con uno sfilacciamento per arrivare al termine del percorso con una disunione.

A questo punto Capuano esce dal teatro inseguito da Fabietto, un Fabietto che gli dice che lui vuole fare il cinema e che è un suo grande ammiratore.

Ci troviamo nel luogo aperto: la strada. Usciamo quindi dal luogo chiuso, dal luogo della convenzione, luogo dello scavo primordiale, specchio del reale, la cui volta viene crepata, aggredita, dall’intervento di Capuano. In strada Fabietto può aprirsi essendo fuori da ogni convenzione e quello che fa è confidare a Capuano che una sola cosa lui sa fare e cioè guardare. Su questa battuta ci dobbiamo fermare, dobbiamo riavvolgere il nastro e tornare indietro nel luogo in cui Capuano ha rotto la convenzione e capire per quale motivo lo ha fatto.

Chiediamoci: cosa sta recitando Yulia? Beh, Yulia sta recitando il soliloquio finale della pièce teatrale di Oscar Wilde Salomè (nella messa in scena dentro il film è un soliloquio, nell’originale è un monologo), ma prima di avventurarci nel soliloquio vediamo un attimo come inizia la pièce di Oscar Wilde.

La pièce inizia con uno sguardo, c’è un giovane siriaco che guardando ripetutamente Salomè dice: “Com’è bella questa sera la principessa Salomè”[1]; questa battuta si ripeterà più volte, così come si ripeterà più volte la risposta del Paggio di Erodiade: non si deve guardare troppo la gente perché in questo modo può accadere una disgrazia.

Il testo di Oscar Wilde parte con uno sguardo e non è un caso. La storia è nota, l’autore muta il materiale narrativo del martirio di Giovanni Battista così come descritto nei Vangeli. E la Bibbia inizia, dopo aver raccontato la creazione, narrando il peccato originale dei progenitori, una disobbedienza che parte da uno sguardo: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare…”[2] C’è quindi un atto del guardare che è un atto in sé illecito perché guarda qualcosa di illecito, un ‘oggetto’, che, come dice il paggio, può portare a una disgrazia.

Andiamo un po’ avanti, Salomè sente la voce del profeta Giovanni Battista, Iokanaan nel testo, prigioniero nella cisterna, quindi, è sotto il livello del terreno (nell’ipogeo) e da questa buca vengono le sue grida accusatorie.

Ricordiamoci, per un attimo, della separazione tra l’immagine e la voce che dicevamo prima.

Salomè vuole vedere Iokanaan e quando lo vede quello che succede è che gli piace nonostante il profeta inveisca contro di lei e contro il suo entourage familiare. Si ripropone l’atto del guardare che spinge al contatto, che spinge al ‘mangiare’ al punto tale che Salomè vuole baciare le labbra del profeta.

La storia riprende i binari noti: Erode fa tagliare la testa di Iokanaan e arriviamo così al soliloquio.

Salomè, ovvero Yulia che la interpreta, la troviamo da sola sulla scena con la testa di Giovanni Battista; a questo punto cerchiamo di capire perché Capuano interrompe questo soliloquio.

Yulia rimprovera a Iokanaan di non averle lasciato baciare le labbra, ebbene adesso può baciarle essendo il profeta morto. Qui accade qualcosa, la battuta è più o meno questa: “Ma perché non mi guardi? La morderò (la bocca) con i miei denti come si morde un frutto maturo.” Non possiamo non andare con la mente al peccato originale, continua la battuta: “Perché non mi guardi? I tuoi occhi erano così terribili.” Yulia scatta e lancia la testa di Giovanni Battista in terra lontano da sé. Capuano si alza e pone fine alla recita: interviene, cioè, nel momento in cui si manifesta la rabbia che è a maggior ragione una rabbia di impotenza. Teniamolo presente perché è la stessa scena che si ripeterà tra Capuano e Fabietto alla fine della sequenza.

La testa del profeta gettata a terra genera una sorta di onda d’urto ‘repulsiva’ che spinge l’attrice ad abbandonare il personaggio e a ritirarsi dietro le quinte e Capuano, ma in generale il pubblico, a uscire dal teatro. Non si sente molto bene, ma se si mettono i sottotitoli ci si accorge che una persona del pubblico dice a Capuano che ha ragione, che ha fatto bene e menomale che qualcuno ha avuto il coraggio di farlo. Quindi il teatro rimane vuoto, rimangono il fantasma di Salomè e la testa di Iokanaan.

Per poter baciare le labbra del profeta Salomè doveva ucciderlo, doveva cioè silenziare la voce che usciva da quelle labbra. Separare l’immagine (e vide che il frutto era buono) dalla voce (non ti è lecito mangiare di quel frutto). Uccidere la voce per poter cambiare la didascalia dell’immagine (la posso mangiare). Attribuire a quella immagine un senso diverso, la propria voluttà, in definitiva una voce diversa.

Salomè si accorge che Iokanaan è morto, sembra una ovvietà, ma non lo è per nulla, prende cioè consapevolezza che non sono la stessa cosa delle labbra morte rispetto alle stesse labbra vive.

Iokanaan non la può più guardare, Salomè si era illusa che vi fosse un unico modo di guardare, quello suo proprio. Negli occhi chiusi di Iokanaan ‘vede’ che ve n’è un altro.

Per capire per quale motivo Capuano interviene dicendo a Yulia che si sta sfilacciando e che è autoreferenziale dobbiamo fare un salto nel tempo; andare a guardare cioè qualcosa di molto simile che avviene sulla scena, e andiamo esattamente all’atto V scena I dell’Amleto.

Ci troviamo in un cimitero, il becchino sta scavando una fossa e tira fuori dei teschi, l’ultimo che tira fuori il becchino stesso lo riconosce essere il teschio di Yorick, Amleto che è lì lo prende poiché ha conosciuto Yorick. Era il giullare, il buffone di corte. Quello che scrive Shakespeare per Amleto è questo: (salto un po’ dentro la battuta) “…ahi povero Yorick l’ho conosciuto m’ha portato in spalla mille volte e adesso è repellente a pensarci…” e poi dice Amleto: “… qui erano appese le labbra che ho baciato non so quante volte…”[3] Interessante. Due teste due labbra.

Allora qui abbiamo una similitudine e una differenza, similitudine importanti e differenza che ci fanno comprendere la reazione di Capuano.

Chi è Yorick? Chi è Iokanaan? Yorick e il profeta Iokanaan sono molto simili perché entrambi hanno un compito: dire la verità. Il foolish shakespeariano è proprio questo: è colui che essendo nella posizione di giullare, di folle può dire la verità perché chi ascolta quelle parole si può sempre difendere dicendo: “Ma è un pazzo, è un folle”. Ascoltandone la verità chiunque può non prenderla in considerazione per sé perché è difeso da quello che il foolish è. Allo stesso modo la verità non potrebbe neanche essere detta da qualcun altro, perché detta da qualcun altro seriamente andrebbe presa sul serio, appunto. Similmente il profeta parlando per bocca di Dio, per bocca di un dio, ascoltandolo si può sempre dire: “Sì vabbè, ma chi mi dice che…” pertanto Yorick e Iokanaan sono assimilabili. Questa la similitudine e la differenza? La differenza qui la fanno Amleto da una parte e Salomè dall’altra.

Amleto bacia le labbra di Yorick da vivo, Salomè questo non lo fa e non lo può fare.

L’Amleto è una di quelle tragedie di Shakespeare dove il foolish non c’è, infatti, Yorik è morto. Perché non c’è? Perché il foolish è Amleto stesso, baciando le labbra di Yorick da vivo Amleto ha assunto la voce del folle, la voce del giullare, Amleto è il foolish della sua stessa opera, è colui che raccoglie la follia malinconica, la follia lucida, liberatoria, violenta.

Scrive Nemi D’Agostino: “Amleto è infelice perché la felicità nel mondo è falsa, è vera solo nella morte.”[4] C’è in Amleto e nel suo assumere la voce della follia una ricerca di autenticità e questa ricerca di autenticità non può convivere con il mondo esterno; esattamente il contrario di quello che accade e vuole Salomè.

Per Salomè la vita, i piaceri della vita, costituiscono una sorta di felicità che si infrange nel momento in cui vede la morte e la vede nella testa di Iokanaan. Per questo Salomè non può baciare le labbra del profeta quando è vivo, perché dovrebbe assumere su di sé, così come ha fatto Amleto, quella follia che gli permetterebbe di vedere come la felicità del mondo in realtà non sia tale. Il costo sarebbe quello intraprendere un cammino che ha come destinazione l’autenticità: essere autentico significa riuscire a mettere in atto quello che la voce del foolish o del profeta dicono.

A differenza di Amleto, in Salomè questa ricerca di autenticità non c’è, quello che c’è è la volontà di separare l’immagine dalla voce.

La ricerca dell’autenticità invece presuppone che l’immagine e la voce rimangano unite: per questo Capuano si alza in piedi e dice ti stai sfilacciando… ‘ti stai sfilacciando’ perché Yulia che sta interpretando Salomè nel momento della rabbia non è Salomè.

Yulia sta cercando di esprimere la rabbia basandosi sulla propria ricerca di autenticità, nel tentativo cioè di essere autentica nel manifestarla; interpretando Salomè fa leva sulle proprie rabbie e sul proprio vissuto ma non su quello di Salomè: a questo punto l’attore si divide dal personaggio e pertanto la voce che noi riceviamo, che ci viene restituita non corrisponde all’immagine del personaggio.

Yulia avrebbe dovuto mancare di autenticità per restituire la stessa mancanza del suo personaggio.

Alla fine in teatro rimane il fantasma di Salomè che esce in strada e diventa un tutt’uno con Fabietto, perché Fabietto condivide la stessa volontà di separare immagine e voce che ha Salomè.

Fabietto e Salomè cercano Capuano perché è l’unico che può capire anche la loro inautenticità. Perché è libero. Quella libertà diventa la discriminante, non è il coraggio che dà la libertà e la libertà che dà il coraggio.

L’arte deve restituire l’autenticità anche quando il messaggio è: questo mondo è un fallimento. Se Yulia si rifugia in sé stessa per recitare Salomè, nella sua autoreferenzialità per manifestare la rabbia, sta tradendo quella che è la voce del personaggio, ne è addirittura, esattamente l’opposto.

Yulia porta la sua autenticità sul palco mentre Fabietto-Salomè vogliono portare la loro inautenticità nella platea, nella vita di tutti i giorni.

Stare al mondo recitando sé stesso rifugiandosi in un’arte che gli permetta di dimenticare l’immagine del dolore significa silenziare la voce che viene da quel dolore. Tagliare la testa di quella voce.

E nella incompiuta ricerca di sé rimane un delitto:

una testa su di un palco.

per l’immagine della testa di Giovanni Battista: Maestro lombardo, testa di san Giovanni Battista decollato, 1510 ca. terracotta by Sailko; https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Maestro_lombardo,_testa_di_san_giovanni_battista_decollato,_1510_ca._terracotta.JPG

A Fabietto sono morti entrambi i genitori in una circostanza inaspettata, la realtà dopo questo accadimento non gli piace più (come dargli torto); ha bisogno di un rifugio, di qualcosa che replichi il tempo passato e questo qualcosa lo trova nel cinema: un cinema che è solo visione, che è solo sguardo, ‘quel’ tipo di sguardo; una immagine che perde la sua propria voce. Capuano definirà questo una speranza consolatoria che non ha niente a che fare con la realtà e col cinema.

O si diventa folli come Salomè o si diventa folli come Amleto o, ed è la terza possibilità, si assume la libertà di Capuano: la consapevolezza di voler cercare e ricercare l’autenticità dà la padronanza di essere folli in un modo diverso. È la follia che vediamo in Capuano quando si alza in piedi e rompe la magia del teatro: un Amleto maturo, un Amleto compiuto.

Giungiamo ora nel secondo spazio chiuso, un po’ più in basso del primo con l’apertura verso il mare e a questo punto, in una sorta di nuovo teatro, Fabietto e Capuano si separano, in mezzo scorre dell’acqua.

I due diventano due personaggi: Capuano è la voce e Fabietto l’immagine.

Il dialogo si fa più concitato, più serrato perché quello che Capuano deve fare è portare il personaggio di Fabietto a quella stessa rabbia che abbiamo visto prima affinché Fabietto si disunisca.

“Ma tu hai qualcosa da dire?”

“Non lo so, come si fa a capire?” risponde Fabietto.

La riposta di Capuano a questa domanda può sembra banale: non lo è per niente.

Lui Capuano ha solo quattro cose da dire. Ma davvero è tutto quello che Capuano ha effettivamente da dire? Assolutamente sì; quattro è il numero della stabilità perché è il numero del divino più l’umano (tre della Trinità più uno dell’uomo). Quello che Capuano vuole dire è che le cose che un’artista ha da dire non sono tante, alla fine girano sempre attorno ad un nucleo, ma quel nucleo è un nucleo stabile: è il nucleo di chi possiede l’autenticità, il coraggio di ascoltare la voce interiore che viene dall’immagine.

La risposta di Capuano sembra buttata là, ma è proprio per questa semplicità (anche con cui la dice) che funziona. Il gioco di Capuano è proprio quello di andare per riduzione, eliminare tutto quello che può essere dolore, fantasia, creatività, tutto ciò che c’è intorno per arrivare all’essenza ed è esattamente il contrario di quello che sembra accadere nelle immagini del film. Da questo punto di vista Sorrentino estetizza tutto, ma è un trucco, la patina estetizzante viene a mano a mano via insieme alle nostre false certezze per scoprire la voce che c’è sotto.

Tra Fabietto e Capuano c’è l’acqua, l’acqua scorre ed è in un minimo tumulto, molto minimo, ed è anche limitata, incanalata: questo sta a significare che tutta la parte emotiva, emozionale, vitale deve e sottolineo deve essere limitata. I tumulti di Fabietto sono i tumulti di quell’acqua, la voce di Capuano è il limite che viene messo a quell’acqua. Acqua che ha anche un’altra funzione che non è solo quella di essere dominata ma è anche quella di lavare un delitto.

Non ci siamo dimenticati che c’è una testa mozza sulla scena, vero?

Abbiamo già ‘usato’ Shakespeare non vi sembri troppo azzardato usarlo un’altra volta, prendo questo ulteriore riferimento dal libro di Andrè Green Slegare – Psicoanalisi, antropologia e letteratura quando parlando del Macbeth Green scrive: “Duncan il re è anche la testa, la radice del sangue scozzese. Alla sua morte, Macbeth fingerà di essere addolorato davanti ai figli del re”[5] e poi mette la battuta, atto II scena III (devo dire che la traduzione in italiano aiuta moltissimo perché è presente una allitterazione che fa gioco, allitterazione che ovviamente nel testo inglese non c’è) recita il testo: “Fonte, fronte e fontana del tuo sangue è cancellata la sorgente stessa”[6].

Se pensiamo al teschio di Yorick e se pensiamo alla testa di Iokanaan non possiamo non comprendere a quale Fonte di verità siano entrambi chiamati nei rispettivi ruoli, alle loro Fronti che affrontano le avversità e alla Fontana di sangue che si effonde ogni volta che una voce viene silenziata.

Quest’acqua, quindi, ha due funzioni: nell’essere incanalata, regolamentata, in modo che non prenda il sopravvento sulla vita, non uccida annegandola la vita stessa può lavare il sangue del delitto, ripristinare la sorgente stessa che è la sorgente della voce.

A questo punto i due personaggi escono dal teatro di loro stessi (dalla grotta del Sé) e arrivano a una sorta di banchina; qui Capuano è pronto a lanciare l’ultima provocazione prima di fare una cosa che è molto interessante.

Sono viso a viso Fabietto e Capuano e qui Capuano deve suscitare la rabbia di Fabietto, la banchina in realtà è il proscenio è come se ci fosse stato un dietro le quinte e ora si va in scena: il mare la platea; occorre che l’acqua in tumulto diventi mare tranquillo.

Capuano dimostra la sua forza al termine della scena togliendosi la maglietta ed essendo libero e autentico può immergersi nel mare, è lui che domina l’acqua, non l’acqua che domina lui. Se vogliamo in termini proprio psicoanalitici è lui che domina i tumulti dell’inconscio e non l’inconscio che domina lui; alla fine della scena, infatti, Fabietto non si tuffa, ma torna indietro.

E adesso cerchiamo di analizzare proprio al microscopio che cosa accade. Sempre nello stesso testo Green riporta lo stupore di Macbeth di fronte al fatto che il medico della regina non riesce a guarirla e la battuta è questa: “[non puoi] strappare il dolore dalle radici della memoria, non puoi cancellare i segni della pena dal suo cervello e liberare il peso che ingombra il cuore col dolce antidoto dell’oblio?”[7]

La risposta del medico è tagliente: “E’ lo stesso paziente che deve trovare il rimedio”.

Di fronte a un Fabietto che è alla ricerca dell’oblio perché obbedisce al suo dolore, la risposta di Capuano è la stessa del medico della regina di Macbeth: “Sei tu Fabietto che devi trovare la risposta”. E la domanda qual è? “Tu, Fabietto, hai qualcosa da dire?” E qui Fabietto scoppia e urla: “Non me li hanno fatti vedere, quando sono morti non me li hanno fatti vedere!” Ed è effettivamente quello che è accaduto: i genitori che si trovavano in villeggiatura muoiono per le esalazioni del camino, il fratello ricevendo la notizia prende Fabietto e insieme si dirigono all’ospedale, quando arrivano il medico gli impedisce di vedere i genitori che sono già morti.

Qui inizia una scena straziante in cui Fabietto urla perché il medico ripetutamente gli impedisce l’accesso, impedisce l’accesso a una persona che sa soltanto guardare.

A Fabietto manca la visione del dolore e la voce distorta, di bassa frequenza, inautentica che Fabietto ha associato a questa mancata immagine è la risposta che dà a Capuano: mi hanno lasciato solo.

Si ripropone la stessa rabbia nettamente di impotenza vista in scena al teatro Toledo e come lì anche qui Capuano interviene e dice: “Non ti disunire, non ti disunire mai”.  

Entriamoci un po’ meglio in questo disunire che è molto più forte dell’iniziale sfilacciamento (perché lì siamo recitando, qui no).

Le ultime olimpiadi hanno portato alla luce un problema che è ben presente nei ginnasti: il cosiddetto twisties, è un momentaneo oscuramento della memoria muscolare per cui l’atleta cerca di riprendere il controllo del proprio corpo attraverso il pensiero. Il problema è che si tratta di movimenti automatici fatti senza pensare e quindi l’azione del pensiero sulla memoria muscolare crea una sensazione di essere totalmente persi. E questo succede generalmente ai ginnasti che fanno per esempio volteggi; quindi, si trovano in aria, perdono il controllo, cercano di recuperarlo volontariamente e lì si crea il guaio perché ricadendo si possono farsi molto male.

L’atleta praticamente in volo si disunisce: così come per Julia anche per Fabietto la rabbia impotente è il gesto dell’atleta di alzarsi in volo, di fare un volteggio e lì…

Lì c’è una memoria, la memoria di Fabietto, che non ha con sé l’immagine; spinto in aria da Capuano la ‘memoria muscolare’ di Fabietto si perde, non recupera più la sua immagine impressa perché non ce l’ha; per riprendere il controllo di sé usa il pensiero che si traduce nelle parole ‘mi hanno lasciato solo’, ma è un controllo esterno che non viene dalla voce autentica, ma sostituisce la voce autentica.

È come se vi fosse una cornice all’interno della quale si sa quale immagine dovrebbe esserci, ma quell’immagine non c’è, quello che c’è, però, è l’interpretazione che Fabietto ha dato a quella mancata immagine, a quell’evento luttuoso. E questa lettura è appiccicata sopra la voce che è all’interno della cornice con l’immagine assente.

La voce che è all’interno della cornice è uscita ‘trasdotta’ in forma di urlo quel giorno in ospedale.

Il pensiero che cerca di dominare la volontà muscolare è la voce posticcia posta sopra la voce autentica, non collimano e la voce posticcia provoca il twisties in Fabietto, volteggiando, rischia di crollare a terra e farsi molto male ed è per questo che Capuano lo interrompe dicendogli: “Non ti disunire mai.”

Julia aveva l’immagine della Salomè autentica e la voce autentica del personaggio, ma quello che ha fatto è dimenticarsi di questa sorta di memoria automatica del personaggio (l’immagine) per inserire la sua voce (di Julia), il suo pensiero, la sua volontà disunendo così sé stessa dal personaggio stesso. E questo crea l’effetto rovinoso di comunicare qualcosa con una didascalia diversa rispetto all’immagine.

Solamente chi è libero nella propria autenticità può permettersi di puntare il dito di accusa, può permettersi di interrompere il volteggio… perché sarebbe peggio non interromperlo.

Solo così l’atleta rinuncia a rimettere in sesto il movimento e svegliandosi può essere che la sua caduta sia molto, ma molto meno rovinosa rispetto a quella che sarebbe se pretendesse di portare a compimento l’esercizio con un atto volontario.

Fabietto non comprende cosa questo significhi, ma la risposta di Capuano può essere una e una soltanto: è l’atleta, è l’artista, è la persona che deve capire da sé come rimettersi in sesto, che in una parola significa avere il coraggio della propria autenticità, avere il coraggio cioè di ascoltare per davvero quelle che sono le parole corrette legate alla propria immagine.

Ma Fabietto è pronto ad ascoltarle? Julia è pronta ad ascoltare?

Qui ci eleviamo parecchio a livello simbolico perché quello che Sorrentino ci sta dando è una cornice nella quale ciascuno di noi può mettere la propria immagine dolorosa, perché la risposta di fondo, indipendentemente dalle singolarità della voce, dai vari timbri che questa può assumere… è sempre la stessa.

Si torna a quello sguardo che è all’inizio del peccato originale, del dolore originale di qualsiasi uomo… ed è a questo punto che Capuano assume le sembianze della voce universale rimandando non solo a Fabietto ma a tutti noi l’origine di ogni dolore dell’esistenza umana.

Dopo che Capuano afferma le parole della voce universale non ci sarebbe più bisogno per Fabietto di andare a Roma per imparare a fare il cinema perché… non si può scappare dal proprio fallimento.

Il proprio fallimento è la rinuncia ad ascoltare quella voce profonda in autenticità; accettando la risposta di Capuano in realtà Fabietto sarebbe immediatamente diventato Fabio e la dimostrazione che l’affermazione di Capuano è vera ce la dà lui stesso togliendosi la maglietta e tuffandosi in mare.

Quello che fa Fabietto invece è procrastinare la possibilità di diventare Fabio, tornare indietro e rifare tutta la strada al contrario, è come se tornasse di nuovo in teatro a contemplare la testa di Iokanaan.

Ma se chi sta nella finzione di un palco non restituisce verità e autenticità fa sì che chi sta in platea non prenda quegli strumenti per poter stare nella realtà.

E Fabietto questi strumenti non li vuole, vuole qualcuno sul palco che gli restituisce la sua stessa mancanza di volontà di autenticità, vuole cioè viversi la finzione per poterla portare fuori nella realtà di tutti i giorni.

E l’affermazione della ‘voce Capuano’ è un atto d’accusa: è l’atto d’accusa primordiale: ci hanno abbandonato in una esistenza.

La risposta di Fabietto nel momento in cui non gli hanno fatto vedere i genitori è stata quella di sentirsi lasciato, quello che non è riuscito e non riesce a leggere è che il grido di dolore che lui ha compiuto è stato un atto di accusa.

Lo legge Capuano non lo legge Fabietto perché l’immagine spesso anche quando non c’è, ma la percepiamo è sempre meno dolorosa di una voce precisa, di parole precise.

Allora il viaggio per Roma non è tanto il viaggio per imparare a fare cinema, ma per imparare che l’arte è Arte di autenticità e solo così può essere. Per far questo bisogna assumere su di sé il grido di accusa che viene lanciato; la responsabilità di sostenere quel grido è non scappare dal proprio fallimento.

Non scappare dal senso di colpa che si tramuta in grido di accusa universale.

E da questo discendono poi tutte le storie felici, divertenti, tragedie, commedie… in sostanza il marchio di Amleto in ogni situazione.

Capuano questo atto di accusa lo ha ascoltato, lo ha elaborato, lo ha reindirizzato e in qualche modo se ne è liberato. Ogni tumulto, quindi, diventa mare calmo nel quale può tranquillamente tuffarsi e nuotare. In una vastità che è la vastità nella quale il grido di quella voce si declina: in ogni storia, in tutte le storie, nell’unica e sola storia.

Ma questo non è il punto più alto del film, ci manca una scena da analizzare.

Sorrentino ci ha dato quella cornice nella quale poter mettere le nostre immagini e per la quale esistono tutte le immagini; cornice che è stata sempre presente per tutto il film ed è la porta del bagno di casa dove dietro di essa chiusa per tutto il tempo c’è la sorella.

Noi non la vediamo mai, sappiamo che c’è, sappiamo che sta lì dentro, sappiamo che c’è un disagio, e lo sappiamo perché ascoltiamo la sua voce. Quella bassa frequenza interiore trasdotta.

All’interno della scrittura del film immagine e voce sono sempre separate e non si uniranno mai.

Il film in realtà rimane col finale aperto, ce la farà Fabietto oppure no? Non è questo che interessa a Sorrentino, a Sorrentino interessa tenere mantenuto per tutto il film separata l’immagine dalla voce.

Ci troviamo nella casa di Fabietto che ormai è vuota perché sono tutti andati via, i genitori sono morti il fratello è andato via, e adesso anche Fabietto è via; ci siamo forse dimenticati che c’è una sorella che non si vede mai e che è rimasta dentro il bagno?

La macchina da presa è ferma, lontana, davanti alla porta del bagno, immobile, fuori i tifosi del Napoli sono tutti in festa e la porta si apre.

Ecco quello che scrive John Cheever in Una specie di solitudine: “La solita lotta per cercare di addormentarmi, ma parte di questa violenza è stata superata con l’età. Ricordo una passeggiata per le strade di New York una notte d’estate diversi anni fa. Non posso dire che fosse come il dolore di sentirmi morto, non ha mai avuto un significato così netto. Però era un tormento, un tormento e una frustrazione schiaccianti, come stare sotto il peso di un’enorme porta.” [8]

Il peso di quella porta da aprire è il peso del dolore di sentirsi morti, in qualsiasi declinazione da quella più cupa a quella meno cupa noi possiamo intenderlo. È una porta schiacciante sì, ma è anche una porta che può essere aperta solo e soltanto da dentro. Quello che accade è che la sorella uscendo non dice assolutamente niente: la voce che parlava da dietro adesso è silenziosa.

Qui Sorrentino dal punto di vista della scrittura è geniale: siamo nell’abbandono più totale. La VOCE si avvicina alla macchina da presa e la macchina da presa ha un movimento a salire verso gli occhi di lei; sembrerebbe un movimento di macchina voluto dal regista, ma questo non lo è assolutamente.

La VOCE è completamente sola, quello che ci viene restituito è quel senso di ti hanno abbandonato anche a te ed in quel momento succede una sorta di miracolo che è l’equivalente un po’ del miracolo che sta accadendo fuori con la festa per il Napoli, avviene quel movimento di macchina che provo a spiegare con le parole di Lennard Hojbjerg: “… vi è un genere di movimento di macchina che dipende dal personaggio, il movimento è generato dai sentimenti dei personaggi e inoltre vi è il portato metaforico che ce lo rende familiare e dunque in certa misura invisibile.” [9]

Quindi è la VOCE stessa -la sorella- che sta rivendicando Io sono la voce e non avete voluto ascoltarmi. E ora io sto in silenzio.

È l’accusa che Fabietto ha rinunciato ad ascoltare e adesso quello che accade è che la voce stessa aprendo la porta della soglia della morte (cornice che segna oblio dell’immagine assente) nella quale l’abbiamo relegata muove quella macchina da presa che è il solo tramite per arrivare a noi che stiamo guardando e ci interroga:

“Tu hai il coraggio di ascoltare quella voce? Tu che sei solo quello sguardo, che non sei ascolto, che sei, ammesso che lo sei, come il giovane siriaco, come Salomè, come Fabietto, te la togli la maglietta e ti tuffi nel mare? Riesci a toglierti la maglietta e a tuffarti nel mare?”

Questa scena è veramente emblematica e credo che sia il punto più alto di tutto il film e ci regala qualcosa di molto di più. C’è, infatti, una scena parallela nella storia della filmografia occidentale, statunitense, che ricorda molto questa ed è in Citizen Kane “Quarto potere” di Orson Wells: la scena finale. Dal 1941 ad oggi, 1941 l’anno di produzione di Quarto potere si chiude un ciclo.

Quarto potere inizia con una sorta di enigma: il personaggio principale, il magnate dell’editoria, muore e nel morire lascia cadere una palla di vetro con la neve dicendo allo stesso tempo una parola e la parola è Rosabella.

Il film, quindi, diventa una indagine giornalistica per cercare di comprendere il significato di quella parola e si arriva alla fine in cui l’uomo, gli uomini si arrendono, non c’è un risultato, si arrendono, non si riesce a capire cosa significhi Rosabella per citizen Kane.

Rischiamo di rimanere quindi con un palmo di naso. Questo è metafora della incapacità dell’uomo di dare una risposta a quelli che sono i fondamenti esistenziali di un altro essere umano, i fondamenti esistenziali dell’umanità intera.

La soluzione dell’enigma è affidata a un movimento di macchina in avanti molto lungo. Ci troviamo nel castello di Kane con tutta la roba che viene accatastata per essere data via e la macchina da presa piano piano, piano piano va incontro a un oggetto (non vi dico nulla se non l’avete visto) e capiamo così cosa vuol dire Rosabella.

Spesso viene detto che quel movimento di macchina è l’intervento del regista onnisciente, ma non credo sia così, anche lì quel movimento di macchina è guidato dalla parola stessa, dalla VOCE stessa, come per Sorrentino.

Il significato di quella parola è la chiave di volta per comprendere tutto il narcisismo di Kane e di fatto anche lì la risposta è una risposta universale: l’abbandono. Ma in Sorrentino la voce diventa persona e non cosa.

La questione sul tavolo è la stessa: siamo veramente pronti per quella verità? Siamo veramente pronti per quella autenticità? Siamo pronti a cambiare l’affermazione in domanda e la domanda in risposta?

Mentre in Citizen Kane quella è la risposta che noi possiamo intendere valida per quel personaggio, ma non per noi in Sorrentino quella stessa risposta fa un salto in più diventando valida per tutti: è come se dal ‘41 ad oggi avessimo fatto un percorso che ci porta dal singolare all’universale.

In Quarto potere la ‘voce’ Rosabella l’abbiamo avuta legata alla sua immagine più volte nel film, senza saperla vedere, senza saperla leggere… senza darle importanza… eppure Wells ce la mostra più volte…

E se fosse anche vero che abbiamo avuto bisogno del regista per andare incontro alla voce, adesso è la VOCE stessa che viene incontro i noi.

Siamo anche noi solamente capaci di guardare senza ‘vedere’?

Alla fine, il percorso di Fabietto per diventare Fabio, per imparare a fare il cinema è il viaggio della scoperta per comprendere che il gol è il gol dell’autenticità.

Termino con una citazione che prendo dal Gesù di tutti di Vittorino Andreoli, scrive Andreoli: “Il dolore del corpo, delle sue parti, di ciascuno dei suoi infiniti frammenti. Il dolore esistenziale, che trascende la carne e pare colpire la mente, la consapevolezza dell’uomo di essere un granello povero e smarrito dentro un universo sconfinato. Un dolore che esce dal proprio io e comprende quello dell’altro, di chi ti sta vicino, di chi persino non conosci personalmente ma sai che è un uomo perché nel suo viso si legge il dolore.”[10]

Ecco il viaggio di Fabietto alla fine, il viaggio a Roma, credo sia questo: un viaggio per imparare a prendere quel dolore che esce dal proprio io e comprende quello dell’altro per riportarlo nel proprio io affinché possa raccontare anche quello dell’altro.

Passare dall’accusa alla libertà dall’accusa, passare dall’accusa alla redenzione.

Un viaggio della scoperta, la scoperta che se quel giorno non andò con i suoi genitori è perché Fabietto aveva qualcosa da scoprire.

E affrontiamo l’ultima immagine del film, almeno l’ultima del main plot, della narrazione portante. Perché questo film ha anche la caratteristica di avere un sub plot, una narrazione secondaria, che potrebbe tranquillamente essere un film a parte. La bravura, qui, di tenere la narrazione secondaria come narrazione secondaria. L’immagine è quella della ‘mano di dio’, il gol di mano divenuto per molti il ‘gol del secolo’. Al di là di tutto quello che è stato detto e scritto su questo gol, quello che ci interessa è terminare lasciandovi una domanda aperta. Dopo quanto detto e vista l’analisi che fino a qui abbiamo fatto: mettendoci di fronte a questa immagine siamo realmente in grado di sentirne la sua voce autentica?

Buon viaggio a Roma e buon ritorno a Napoli.

Aspetti negativi.

Nudi e ‘iniziazioni’ sono inutili e non necessari. Così come far fare a un ‘santo’ atti che non gli sarebbero propri. Tutto parte di quella dicotomia sociale nella quale siamo immersi.

Da un punto di vista più tecnico il cono avvolgente del realismo magico è forse troppo lineare: la scrittura procede dall’incarnazione (san gennaro) alla sospensione (il munaciello) – sospensione perché al confine tra reale e irreale – e alla ‘apparizione’ di Maradona in macchina.

Incarnazione, sospensione e apparizione forse sarebbero stati più efficaci ponendo ‘l’apparizione’ al centro, lasciando la sospensione all’inizio e l’incarnazione alla fine.

per l’immagine di Maradona: “#handofgod #maradona” by indigoMood; https://www.flickr.com/photos/47773923@N00/11517699834

Anche a livello simbolico il film partirebbe meglio da una posizione sospensiva che ha bisogno di un intervento ’divino’ per poi concretizzarsi in un viaggio.

Il fulcro di questo realismo magico è la follia di Patrizia, analizzare la quale almeno per il momento esula dal presente lavoro.

Irvin Gotta
© riproduzione vietata

Guarda su YouTube:

https://www.youtube.com/watch?v=hmA2zZ64Y0Q

Nota: il ‘twisties’ è trattato esclusivamente come espediente letterario; per l’aspetto medico si rimanda la competenza.


[1] Wilde O., Salomè, trad. it. Domenico Porzio, Milano, Rizzoli, 1997

[2] Gn 3,6

[3] Shakespeare W., Amleto, trad. it. Nemi D’Agostino, Milano, Garzanti, 1995, p. 225

[4] ivi, p. XLII

[5] Green A., Slegare – Psicoanalisi, antropologia e letteratura, trad. it. Antonio Verdolin, Roma, Borla, 1994, p. 225

[6] ibid.

[7] ibid.

[8] Cheever J., Una specie di solitudine, trad. it. Adelaide Cioni, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 21

[9] Gallese V., Guerra M., Lo schermo empatico, Milano, Raffaello Cortina, 2015, p. 143

[10] Andreoli V., Il Gesù di tutti, Milano, Piemme, 2013, pp. 59-60

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