Perfect Days – La scena del triangolo




Immagini da: Perfect Days (2023)
Sceneggiatura Wim Wenders, Takuma Takasaki;
Regia Wim Wenders;
Casa di produzione Master Mind;
Distributore italia Lucky Red.


Un’ombra sopra un’altra diventa un’ombra più scura?

Un’ansia sopra un’altra diventa paura?

Una paura sopra un’altra diventa terrore?

Sì…sì perché i giorni perfetti non sono i giorni felici, sono i giorni scelti.

Analizzerò fra poco quella che per me è la scena più bella e significativa di tutto il film, quella che ho chiamato la scena del triangolo e questo perché la scrittura di tutto il film ha una struttura a triangolo. Qual è la storia? è la storia di una vittoria. Nel film c’è infatti un vincitore, per la verità un vincitore e mezzo e il vincitore è il protagonista Hirayama e il mezzo vincitore si laurea proprio, mezzo vincitore, nella scena del triangolo. Ma vincitore di cosa? Di una guerra, la vera guerra, quella che non è fuori di noi ma quella che è dentro di noi e Hirayama quella guerra l’ha vinta. È il vero rivoluzionario contro il sistema, capace cioè di alzare la voce solo quando serve, quando deve fare ad esempio il turno che non è il suo. Capace soprattutto di silenzio, di ascolto. Quando va a mangiare dopo il lavoro e l’oste gli porge da bere dicendogli: per il vostro duro lavoro!

Quel lavoro non è pulire i gabinetti, ma è resistere, resistere, resistere, resistere, resistere al mondo di oggi più vecchio di quello di ieri, più malato di quello di ieri contro il quale l’unica vittoria è la resistenza ad oltranza. Oltre a Hirayama i personaggi intuiscono che qualcosa nel sistema di oggi non va, ma non passano la linea, è troppo faticoso.

Lo ha capito per esempio la ragazza del suo unico e giovane collega, collega che deve ricambiare con cose, con oggetti l’amore. Ci si può innamorare senza soldi, si chiede? Sì, si può ma lui non lo sa. Ha capito che qualcosa non va la nipote che scappa dalla ricca freddezza della madre perché le risposte, quelle vere arrivano mentre lavi i piatti o pulisci un gabinetto, non quando stacchi un bonifico con lo smartphone, anche se necessario.

Tokyo sostituisce gli alberi con l’Albero del Cielo che offre una migliore copertura del segnale, ma la vita si conserva meglio in una audiocassetta fatta di nastro che visibilmente finisce e poi si riavvolge, finisce e si riavvolge. La vita fatta di rullini con pellicole che sono nastri che si avvolgono, estendono e finiscono, fino all’ultimo giro, all’ultimo scatto, fino all’ultimo giorno perfetto; perché la morte non è la fine, la morte non è una malattia da curare, siamo tutti a scadenza e così un’ombra su un’altra diventa più scura, un’ansia diventa paura, una paura terrore, ma la risposta c’è.

Sembra che Hirayama sia solo in questo e lo è. Ma non della solitudine che potremmo pensare. La sceneggiatura qui è superlativa, Hirayama trova chi si è perduto: il bambino.

Hirayama è cercato, non per compagnia, ma per risposta.  Il suo mondo non si lega con gli altri, il problema è che sono gli altri a non voler lasciare il mondo, ed entrare in quello di Hirayama. E la risposta è, vale la pena entrare nel mondo di Hirayama. Ma in pochi ce la fanno e questi pochi nel film non ci sono. O meglio, un ‘mezzo’ c’è. Non ce la fa il collega giovane a entrarci, non ce la fa quella che poteva essere la sua ragazza anche se colpita dalla bellezza della musicassetta, non ce la fa il senza tetto in fuga da sé stesso, non ce la fa l’ex marito alla fine del film perché semplicemente per lui è troppo tardi. La malattia gli lascia poco tempo. Quante cose ancora non ho capito, dice. E pur non conoscendo Hirayama gli affida la sua ex moglie perché lui, Hirayama, c’è sempre.

Da quando il bar ha aperto, lui c’è sempre. Forse l’uomo ha frainteso e Hirayama glielo dice, non c’è nulla di sentimentale tra loro, ma qui di nuovo la scrittura ci toglie la terra sotto i piedi. In questa ipotesi di fraintendimento c’è un altro fraintendimento. Non è nell’essere affidati il punto, ma nell’affidarsi; bisogna uscire, non entrare. Come ha fatto lui, Hirayama. È uscito dal mondo. È uscito da Tokyo, standoci. Idealmente a nuoto verso l’oceano del Sumida Gava tocca l’isola delle risposte e nel silenzio grida: tana libera tutti: ma con le cuffiette alle orecchie la gente non sente.

Non capisco come funziona, dice la ragazza, non vedendo che i vetri del bagno si oscurano una volta che ci si chiude dentro. Nessuno vede, nessuno capisce eppure quando il bagno è libero i vetri sono trasparenti, ma se ti chiudi dentro nessuno ti vede o quasi nessuno, potresti finire infatti a giocare a tris con Dio e finire la partita, con Dio pari, e patta perché Dio è nelle piccole cose.

La scena del triangolo

Iniziamo dalla sceneggiatura. Come mai la sceneggiatura ha una struttura a triangolo? Il film è scandito da tre libri, Gli alberi di Aya Koda, Le palme selvagge di William Faulkner e, secondo l’edizione italiana, Urla d’Amore di Patricia Heighsmitt, disposti in questo modo, così come nel grafico sottostante.

I vertici in basso del triangolo sono illuminati, diciamo così, da quello che sta in alto. Quella è la posizione del protagonista Hirayama. Poi in basso ci sono i due macro-temi del film. Uno è Faulkner (forse il più grande scrittore occidentale del secolo passato e non solo, almeno per quanto mi riguarda per la potenza narrativa che riusciva a esprimere) copre i personaggi del giovane collega, della signora del locale, e quindi dell’ex marito colpito da tumore. Non ce ne occupiamo qui, perché servirebbe una trattazione a parte. Qui ci concentreremo sull’altro vertice, ovvero il racconto contenuto in Urla d’amore intitolato in italiano La tartaruga che riguarda la nipote del protagonista e la madre, ovvero la sorella del protagonista. Una delle cose più interessanti del sistema di immagini di questo film, è che la struttura della sceneggiatura, quindi della scrittura, la struttura triangolare, è fisicamente sempre, costantemente presente durante il film, perché è presente nel set principale, evidenziato nella immagine sottostante.

Si tratta di un triangolo isoscele dove il lato più lungo è rappresentato dalle scale. Ed è proprio sul lato più lungo che troviamo Niko alla sua prima apparizione in scena.

Per quale motivo Niko si trova lì? Si trova, cioè, sul lato lungo del triangolo o, meglio, sul lato non uguale rispetto agli altri due. Torniamo un attimo alla struttura, dal vertice discende l’attitudine, l’impostazione per la risoluzione dei problemi, molto semplicemente è l’attitudine che ha l’albero, che hanno gli alberi di piegarsi quando arriva vento forte, tempeste, per poi tornare in posizione una volta che queste sono passate.

Quello che è il centro del triangolo, ciò che c’è all’interno del triangolo è il problema, il nostro problema, il problema in questo momento, il problema esistenziale; si va dal particolare al generale, dal personale, alle piccole comunità, alle grandi comunità, alle nazioni. Se notate i due lati uguali che discendono dal vertice li ho illuminati di giallo, questo significa che i due macro-problemi che Wenders pone all’interno del suo film possono essere risolti illuminati, spiegati, proprio attraverso l’attitudine che viene dal vertice. Ma attenzione perché c’è un unico lato del triangolo che rimane buio ed è il lato opposto al vertice, rappresenta ciò che si oppone direttamente alla soluzione, ed è proprio il lato diverso dagli altri due che riprodotto fisicamente in scena è rappresentato dalle scale.

Quando Niko arriva, arriva con un problema molto, molto pesante per lei, quello che fa è scappare di casa, scappare dalla madre per raggiungere lo zio, ma lei di preciso non sa dove lo zio abiti, qual è la porta di ingresso? Fuori di metafora: Niko porta con sé un problema veramente grosso e profondo, ma lei è sopra il problema, sul lato buio, non vede la soluzione, non è dentro il problema, cerca una risposta, cerca la possibilità di entrare nel problema, cioè, stare dentro il triangolo e soprattutto in uno dei due lati dove il suo stesso problema può essere illuminato e quindi risolto.

Stare al di sopra convinti di poter risolvere un problema significa sostanzialmente esserne estranei, portarselo dentro e farsi guidare, gestire da quel problema. Quello che sostanzialmente Nico dovrà fare, e quello che farà, è imparare a vivere dentro il problema. In fondo quel triangolo che cos’è? È la struttura portante della casa di Hirayama, la struttura portante che consente a Hirayama di entrare e uscire dalla sua casa portando in sé, con sé, gestendo i problemi esistenziali, così come fa una tartaruga che porta appresso la sua casa, vi entra e vi esce con saggezza. Portarsi, cioè, alla scoperta di una interiorità che non deve essere svelata all’esterno. Infatti, di tutti i problemi che i personaggi hanno, noi cosa vediamo? Vediamo una apparenza, vediamo un qualcosa, ma per arrivare alla profondità dobbiamo noi stessi, perdonate il gioco di parole, approfondire.

Quello che Niko porta è davvero un problema pesantissimo e lo possiamo scoprire solo in un modo, leggendo quello che Niko legge. Possiamo, cioè, entrare veramente in sintonia e intimità con qualcun altro se riusciamo a leggerlo e a leggerlo profondamente. E questo vuol dire stare, stare come stanno gli alberi, ascoltare, ascoltare come ascoltano gli alberi e quando le urla si fanno troppo forti piegarsi per tornare ad ascoltare il fruscio e il silenzio, ma anche e soprattutto quando si è piegati, ascoltare il proprio dolore. Analizziamo la scena in cui Niko, dopo il suo apprendistato vicino allo zio, è costretta a tornare dalla madre.

Abbiamo quindi tre personaggi, abbiamo tre lati dello stesso triangolo. Qui la messa in scena è veramente pazzesca perché il triangolo che è ideale e fisicamente presente in scena, ideale perché è messo in verticale, diventa concreto. Cioè, i movimenti dei tre personaggi sono i movimenti lungo i lati di questo triangolo che viene proiettato quindi da una sorta di verticale ideale ad una concretezza orizzontale in questo modo (immagine sottostante).

Per me questa scena per come è composta, girata e sistemata, valeva l’Oscar al miglior film internazionale.

Prima di andare avanti devo presentarvi Victor.

Victor venne portato in un grande vecchio edificio pieno di medici ed infermieri. Victor era molto calmo e fece tutto quello che gli venne detto di fare e rispose alle domande che gli facevano ma solo a quelle domande e visto che non gli chiesero niente a proposito di una tartaruga lui non tirò fuori l’argomento”. Patricia Highsmith, Urla d’amore, La tartaruga, traduzione di Sergio Claudio Perroni, La nave di Teseo editore, Milano, 2020.

Victor fu portato in un ospedale psichiatrico perché Victor fece alla madre quello che la madre fece a quella che lui pensava fosse la sua tartaruga. Victor vive in un ambiente altamente disfunzionale. La madre non solo gli impedisce di crescere, ma lo umilia pesantemente e così quando lei torna dalla spesa lui scopre che nel sacchetto c’è una tartaruga. Questa piccola tartaruga per Victor è una sorta di riscatto. Qualcosa da far vedere agli altri ragazzi visto che per lui le amicizie sono molto difficili. Ma quella piccola tartaruga non è un regalo per Victor. Quella piccola tartaruga finirà tagliata dentro una pentola per fare il ragù. Victor quando la madre non c’è, legge La mente dell’uomo di Karl Menninger, dello psichiatra. Dove ci dice la Highsmith ci sono casi autentici. Victor si identifica con la tartaruga al punto tale da vendicarsi. Quella identificazione diventa la sua unica via di uscita che una volta chiusa crea il corto circuito. Quello che Niko porta è quello che Victor porta.

Il link all’altro macro-tema, quello che fa capo a Faulkner qui è letteralmente dirompente. Uno dei personaggi, infatti, in Le palme selvagge a un certo punto dice: “Ecco è proprio tutto al contrario dovrebbero essere i libri, i personaggi dei libri a inventarci e a leggere di noi – i tizi, i semproni, i Wilburne e gli Smith”. William Faulkner, Le palme selvagge, traduzione di Bruno Fonzi, Adelphi, Milano, 1999.

Leggere senza identificarsi, unirsi rimanendo con la propria sana identità. La scena del triangolo diventa così il baricentro di tutto il film, all’interno della quale Wenders inserisce una sorpresa, qualcosa di personale. Vediamo la profondità dei movimenti in questa scena.

La prima cosa che notiamo è che Niko si trova al vertice, al vertice dei due lati illuminati. Ovvero sia si trova esattamente all’opposto di quando è entrata in scena, non è più sul lato buio, sul lato di chi non vuole guarire, sul lato di chi si identifica con i propri problemi, soprattutto se esistenziali e se ne lascia fagocitare. L’apprendistato con lo zio ha funzionato, adesso Niko è interiormente libera ed è in grado così di spostarsi da quel lato buio fino al vertice dei due lati illuminati.

Qui lo scambio è fantastico, perché Nico prende quello che è il posto di Hirayama. Hirayama lascia il vertice e lo cede a Niko. E anche qui è bellissimo perché Hirayama va a prendere la posizione di difesa, una sorta di parafulmine. Si porta infatti nel vertice dove inizia il lato buio. Ed è l’unico personaggio che in tutta la scena non si sposterà mai.

Si pianta lì come albero a difendere Niko e a prendersi l’attacco della sorella, stando ben attento a non percorrere mai il lato della non soluzione. Niko ora è libera sui lati luminosi. Si può avvicinare allo zio per salutarlo, per apprendere di nuovo. Può rientrare in casa, non identificandosi più con la tartaruga, ma prendendo dalla tartaruga l’esempio. Ritirarsi in sé, prendere forza per poi riuscire, estendersi, ritirarsi ed estendersi. E può andare verso la madre. Ormai libera, lei, Niko, interiormente può sostenere quel peso che Victor non è riuscito a sostenere, anche perché probabilmente non aiutato. Se Hirayama è l’eroe, Niko è la nostra eroina, è la nostra mezza campionessa, è il mezzo campione che dicevamo all’inizio, lo sarà interamente, solamente quando lascerà la madre.

Sul lato invece quello buio rimane la sorella, rimane la mamma di Niko. Rimangono tutti coloro, cioè, che non desiderano, non vogliono, non pretendono di guarire. E quel lato viene effettivamente usato perché la sorella sferra l’attacco contro il fratello, percorre il lato buio del triangolo, va di fronte ai Hirayama e gli ricorda qualcosa del padre e qui Wenders si scopre. Non possiamo non andare ai ricordi infantili di regista che parla del padre come una figura molto ingombrante, ma non possiamo neanche non tenere in considerazione la fascinazione adolescenziale che lo stesso Wenders ebbe per Camus.

La ricerca del senso della vita che assurdo per assurdo anche volesse essere che è assurda, vale sempre la pena di viverla fino alla fine. E allora qui c’è il tocco di classe perché i Hirayama subisce il colpo, la sorella ripercorre il lato buio del triangolo e i Hirayama si piega subisce il colpo, la ferita si riapre, il dolore riaffiora, le lacrime iniziano a bagnare gli occhi, si piega come un albero, è arrivata la tempesta, è arrivato il colpo, lo regge liberamente e poi ritorna in piedi.

Irvin Gotta
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